Il 20 maggio si è conclusa la Prima Edizione del Premio Pettoruto. In attesa del comunicato stampa con cui gli Organizzatori intendono ringraziare per il successo dell’iniziativa e della cerimonia di premiazione, si riportano per esteso le lettere dei vincitori del Concorso a cui vanno i complimenti più sentiti.
Categoria adulti.
Al primo posto con un totale di 58 voti su 60, si è posizionata la lettera con protocollo n. 81, avente titolo “Lettera d’amore mai spedita” dell’autore Francesco Marasco di San Sosti (CS).
Lettera d’amore mai spedita.
Mio amato paesello,
non potevo venire al mondo in posto più bello. Ogniqualvolta ritorno, scorgo da lontano il profilo dell’imponente massiccio del Pollino e immagino le estreme propaggini collinari sulle quali si distende il tuo abitato. Vedo la Muletta e resto ancora stupito dalla sua sagoma straordinariamente geometrica e quasi sempre innevata. La maestra quando parlava delle piramidi e ci spiegava questa forma geometrica solida, prediletta da un’antica e lontana civiltà, ce la indicava dalla finestra dell’aula per farcela riprodurre sul quaderno. Allora il tuo paesaggio diventava il prolungamento della lavagna.
Che bello il mormorio del fiume Rosa che ti lambisce, il Mulino, la Fontana e la fresca cascata di Fra’ Giovanni; la Timpa e il Castello della Rocca tra cespugli di ginestre odorose, lentischi e ciuffi di cannucce; che diletto ammirare le boscaglie di elci e ontani che s’inerpicano tra forre e gravine di ghiaia fin oltre il Santuario della Madonna del Pettoruto e al di là della leggendaria Artemisia. Ma tu sei non solo un luogo geografico, ma anche lo scrigno che conserva la mia storia fatta di emozioni, di sogni, di nostalgie…
Parrebbe che questo mondo frettoloso, sia poco incline a guardare indietro. Il tempo passato non lo attrae, spesso finge di ignorarlo, come se non avesse più alcuna utilità. E così anche il presente stagna nell’arida indifferenza e procede alla cieca verso un futuro incerto e confuso. La verità è che oggi non si cede più allo stupore, non s’investe sufficientemente nelle emozioni che ci sono appartenute, belle o brutte che fossero.
Son convinto, paesello mio, che niente delle cose vissute in passato si perda definitivamente o possa essere inghiottito dall’oblio. Siamo in continuo viaggio. Il presente è come un bivio da cui passa tutto: è l’incrocio tra l’attimo che arriva e quello che parte. Non esistono salti o scorciatoie per la felicità. Il mio passato è stato luogo di meraviglie. Testimone muto dei miei primi sentimenti per una delle creature più dolci cui tu hai dato i natali. Da molti anni lei non abita più nella casa dalla lunga scala; le rondini hanno abbandonato i nidi sotto la grondaia già da tante primavere. L’ho veduta quando tornai per la festa del vino e dei falò, quella dimora a me tanto cara: le imposte sono ancora chiuse, i vasi di coccio una volta pieni di begonie sono vuoti e abbandonati sul balcone nero di ruggine. Lì contro la parete è rimasta una catasta di legna di frassino esposta alle intemperie. Le robinie, al margine della strada che erano giovani come noi, sono cresciute tanto da allora, qualcuna è rinsecchita.
Il solo destino che accomuna me e lei è di essere andati via; partiti ognuno per direzioni diverse. Entrambi lontani da te come figli raminghi e destinati a esserlo forse per sempre. Sebbene lei mi manchi tanto, mi spezzerebbe il cuore rivederla oggi. Non voglio più: ormai non serve scomodare la geografia per cercarla. Voglio ritrovarla come ho sempre fatto da allora, lì dove sbocciò quella mia innocente passione, con gli occhi e il cuore di quel ragazzo di tanti anni fa. Ci vuole veramente un attimo per ritornare nei luoghi in cui si è stati bene.
Ecco, la foschia del tempo svanisce veloce e i contorni sono ora vivi e ben definiti: tra me e lei c’è solo lo spazio ampio e aperto della piazzetta Libertà.
Son sparite d’incanto le auto parcheggiate e tutt’intorno inizia a pulsare di vita come una volta: la Cassa di Risparmio, la barberia, il macellaio, il sarto brontolone, il mastro fabbro ferraio, la cantina di zio Alfredo, il bar, il grande albero di noce, e lei. Eccola lì al balcone, lei.
La vedo appena. Che bella che è...
L’aria è tiepida e piena di luce, è primavera inoltrata. Sento il profumo dei grappoli violacei dell’alto glicine che pendono nel cortile del portone spalancato di palazzo Pisani e penso a lei. È rientrata… L’odore intenso giunge dappertutto e inebria ogni cosa; sono aggrappato con le mani alla ringhiera. Aspetto. Le tendine trasparenti del soggiorno vengono fuori e sbandierano con soavità la loro leggerezza.
Esce nuovamente… eccola! Frasche spilungone di robinia ostruiscono un po’ la vista dal mio balcone al suo. Ascolto il lento crepitio delle faville del focolare mentre la mamma nella camera in fondo rifà i letti e canticchia.
Ora batte i piedi sul ballatoio nervosamente. Chissà cosa l’è andato storto… singhiozza con disperazione e strepita. Ha la faccia imbronciata e lancia qualcosa in aria. Precipitano giù in strada piccoli giocattoli, figurine che sfarfallano di qua e di là e un pupazzetto di stoffa rosa. Mi nota e di riflesso tira fuori la lingua. I suoi occhi luccicano; si sporge e guarda dabbasso corrucciata e serra i denti. Che bel caratterino, mi piace! Rientra in casa, credo per far le ripide scale e andar fuori sulla via; io corro giù all’impazzata per arrivare sotto casa sua, prima di lei. Ho tempo di fare un mucchietto delle sue cose e lasciargliele ben sistemate sul primo gradino della scala. Mi nascondo e spio: lei ora è meravigliata di trovare le sue cose sul gradino. Non è tutto, però. Il pupazzo l’ho tenuto con me così poi potrò darglielo. Voglio qualcosa di suo.
Resta col dito in bocca a pensare, poi capisce e aggrotta le sopracciglia guardando verso casa mia.
E’ quasi estate, eccola ancora! Sono nella piazzetta, c’è aria di festa. La vedo scendere dalla scala di casa mentre trattiene gli orli del candido vestito che indossa: è il giorno della sua prima comunione. Sembra una sposa bambina, una principessa. I riccioli castani scuri, le fossette sulle guance e i suoi meravigliosi occhi continuano a rapire i miei sensi. Li vedo come fosse oggi. Oltre gli alti rami del noce, le nuvole sono spinte dal venticello e disegnano ombre fuggevoli sul lastrico della piazza. Gruppi di persone seminate qua e là ai bordi della strada hanno abiti nuovi… La porta di casa sua è aperta e ornata di fiori. Posa il piede sull’ultimo gradino e si ferma per la foto; dopo il clic cerca tra la gente, guarda dritto verso di me per un attimo e le viene fuori un gran sorriso. Un sorriso largo, smisurato, tutto mio. Ho i fremiti sotto la pelle: sono invaso di felicità. La amo. Tra tutti ha cercato proprio me, ne sono certo: forse anche lei mi ama…
Dalla torre campanaria con i merli e gli orologi partono rintocchi a festa. Dal grande noce, svolazzi e cinguettii. Petali di fiori gialli di ginestre tracciano cuori per terra e corolle di rose al centro della strada non riescono a salvarsi dal calpestio di passi distratti. Giunge ora nella piccola piazza del Carmine, l’attendono le compagne e si riavviano. A lei pare dispiaccia calpestare quel tappeto di fiori e saltella leggera, vola quasi come farfalla. Ha il risolino in bocca e non è per niente impacciata: le sue scarpe nuove scricchiolano sul selciato allegro della stradina che conduce alla chiesa madre.
La gente continua ad affluire sul sagrato: dal rione Molinelle, dal Piano della fiera, dalla via Nazionale, dal quartiere Vitusa. Ho occhi solo per il suo splendore. Eccola, la vedo così come allora…Da quella volta penso di amarla perdutamente; e rimarranno ignoti i motivi per cui proprio lei s’impadronì del mio cuore. Avevo poco più di dieci anni, quando sentii nascere questa gioia dentro, e oggi il ricordo e la trepidazione che provavo allora, producono in me la stessa ebbrezza. Un mistero. Eppure è sempre rimasta una storia minuta, piccola e senza clamori; mai cresciuta o diventata adulta. Un amore mai maturato; di certo non corrisposto perché mai rivelato.
Che grande nostalgia e che patimento quando durante le notti della fredda stagione sentivo il fragore dei tuoni e il vento fischiare nella piazza; oppure d’estate quando la luna piena spuntava proprio sul suo tetto. Non potevo fare a meno di pensarla tutte le volte che i primi fiocchi di neve annunciavano l’arrivo di Babbo Natale e della Befana. Immaginavo di salire sulla slitta dell’uno o sulla scopa dell’altra per calarmi anch’io giù per il suo caminetto, guardarla mentre dormiva e lasciare il suo pupazzetto sopra il comodino. Odiavo il lungo inverno perché non la vedevo. Il suo pupazzetto che strinsi sotto il mio cuscino, dopo qualche giorno glielo lasciai sul gradino della scala. Ho pensato non so quante centinaia di volte al magico primo sorriso che mi regalò quel giorno. Avrei voluto che la gente tutta sparisse d’incanto per poterla afferrare per mano, portarla in chiesa e sposarla.
Ma io la seguivo da lontano con la palla sotto braccio, i calzoni corti e le ginocchia sbucciate.
Ero innamorato perso di lei, ma timido. Troppo timido. Non sarei mai riuscito a rivelarle niente di ciò che provavo, ne ero certo… Le rare volte che mi capita di ritornare da te, paesello mio, faccio la prima tappa davanti al muretto sotto casa di nonna, che cinge l’orto dei fichi: lì è custodito il mio segreto di allora, proprio lì ho firmato il mio inconfessato amore per lei. L’ho suggellato sulla pietra quand’ero bambino. Una pietra liscia in mezzo a tante altre uguali. Su di essa ho intagliato a caratteri grandi, le iniziali del mio nome vicino alle sue, dentro una scanalatura a forma di cuore. Senza freccia. Emozionato e con i lucciconi agli occhi come un bambino, gratto il muschio cresciutole sopra ed ecco la mia lettera, ecco la sua: paiono abbracciarsi. Non ho mai avuto coraggio di dirglielo a voce o scriverlo con inchiostro quello che sentivo: ho solo usato la punta di un chiodo d’acciaio “ottantino” e il martello, come un maniscalco. Spesi interi pomeriggi di sonnolenta afa estiva in quel vicolo sperduto ai margini del paese, per evitare d’essere visto, e ho inciso più in profondità che potevo le nostre lettere: la mia F e la C di Chiara.
È stata una storia mancata che poteva essere e non è mai stata. Mi restano addosso solo balenii di ricordi, forse qualche piccolo rimpianto.
Quelle lettere d’amore scavate sulla pietra sono le uniche tracce che testimoniano lo sbocciare del mio primo sentimento amoroso; un segno, indelebile seppur fuggevole, del suo passaggio nella mia vita.
Al secondo posto della categoria Adulti con un totale di 57 voti su 60, si è classificata la lettera con n. prot. 16, avente titolo “Alla mia terra, alla mia Calabria, alla mia casa”, dell’autrice Incutti Angela di Montalto Uffugo (CS).
Alla mia Terra. Alla mia Calabria. Alla mia Casa.
Cosenza, 17.03.2017
Ti ho amato da lontano in questi ultimi dieci anni. Ti ho amato di un amore viscerale e profondo, come il primo amore che ti si attacca alle ossa e non ti lascia mai davvero. Quell’amore silenzioso e puro che niente e nessuno potrà scalfire mai. Ti ho amato senza pretendere nulla in cambio. A te, che ogni volta che ti rivedevo eri diversa. Invecchiata. Con una ruga in più. Profonda come un solco scavato nella terra. Mi sono sentita fuori posto quando tornavo e ti vedevo cambiare in quell’immutabile silenzio. Mi sono sentita come se ti avessi tradito e tu ti fossi dimenticata di me. Perché in fondo un po’ è stato come tradirti quando me ne sono andata.
Eppure t’amavo. T’amavo di quell’amore che a diciott’anni non può bastare. E allora ho raccolto la mia vita in una valigia gonfia e ti ho salutato. Col cuore pieno di lacrime. Di speranza e di paura. Me ne sono andata perché volevo sognare. Me ne sono andata per tornare. Con la consapevolezza che niente sarebbe stato uguale. Ché il tempo non si ferma ad aspettarti. Ho imparato a cacciarle indietro le lacrime quando mi mancavi. Quando il cielo grigio di una città lontana mi faceva sentire una straniera in casa d’altri. E tu, tu che eri Casa, col tuo azzurro cielo, eri lontana centinaia di chilometri. E mi mancavi quando le fotografie di chi avevo lasciato mi rimandavano i colori di quel mare che mi sembrava di sentire sulla pelle. Mi sei mancata nelle giornate uggiose quando avrei voluto sentire sulla faccia il calore che solo tu sapevi darmi. Ci ho pensato delle volte a tornare. A prendere coraggio e a dire addio alle speranze. Al sogno. Ma se a partire ci vuole coraggio, ce ne vuole ancora di più a rassegnarsi a sentire quel vuoto dentro pur di rincorrere quel sogno. Il mio sogno era lì, a 700 chilometri da te, in una città diversa e sconosciuta, una Terra che col tempo ho imparato ad amare. Ma il primo amore non si può dimenticare. Nemmeno se la vita ti regala un nuovo amore. Resta sempre lì, nell’angolino più nascosto del cuore. E puoi anche non pensarci più. Puoi anche andare avanti con la tua vita, ma un giorno quando per caso lo rincontri senti quella stessa emozione di tanti anni prima. E non importa se nella tua vita c’è un nuovo amore, non importa quanta felicità questo nuovo amore sappia regalarti. Avrai sempre le farfalle nello stomaco per quell’incontro. Sentirai sempre un colpo all’anima. E per me oggi è così. Oggi che ti scrivo questa lettera. Una lettera d’amore che non chiede niente in cambio. Amara, come sono amare le mie lacrime. Come lo erano dieci anni fa, quando me ne sono andata via da te. Come lo sono oggi che ti vedo cambiata, eppure in fondo sempre uguale. Ho incontrato tanti compagni di viaggio in questi anni. Tanti compagni di viaggio che mi hanno raccontato di te. Qualcuno innamorato delle tue strade, dei tuoi odori, dei tuoi difetti, proprio come me. Qualcuno arrabbiato, ferito, distrutto dalle tue contraddizioni, dalle tue ingiustizie. Ma ognuno di loro aveva nel cuore una consapevolezza triste: doveva andar via per realizzare il proprio sogno. E non importa che sogno fosse. Non importa che ognuno di quei compagni di viaggio che ho incontrato avesse un sogno diverso. Non c’era spazio per nessuno dei loro sogni nella nostra Terra. Ognuno di noi, con la tristezza nel cuore, sapeva di dover andare via.
Oggi io sto tornando da te. Sto tornando con le stesse paure nel cuore e le stesse lacrime negli occhi di dieci anni fa. So di trovarti cambiata. E so di essere cambiata io. Ma oggi il coraggio che ho avuto, io come tutti i compagni di viaggio che ho incontrato, dieci anni fa a lasciarti andare, è quello di tornare. Ché tu, con tutte le tue contraddizioni e i tuoi difetti, sei e sarai sempre il mio primo amore. Quello che ti si attacca alle ossa e non se ne va. Mai. E non voglio niente in cambio. Non pretenderò niente da te dopo tutti questi anni. Se non potermi svegliare ogni mattina, seppur con le stesse incognite e con le stesse paure, con la consapevolezza che questo è il mio posto nel mondo. Se non aprire gli occhi ogni giorno e sapere di essere tornata a Casa. Una Casa bistrattata, ferita, calpestata. Una Casa che ha sofferto e soffrirà ancora. Ma una Casa che sa farti sentire amata.
Al terzo posto della categoria adulti con un totale di 53 voti su 60, si è posizionata la lettera con n. prot. 80, avente titolo “Cara Accumoli ti scrivo”, del sig. Emilio Limone di Fiuggi (FR).
CARA ACCUMOLI, TI SCRIVO
Scrivere? È un toccasana, una valvola di sfogo. Eppure non basterebbe un libro intero a liberarmi il cuore da un’eco assordante, torrenti d’inchiostro non rimedierebbero all’improvvisa siccità di un’anima scossa. Tuttavia voglio scriverti, cara Accumoli. Agrodolce casa mia, stazione di passaggio in una breve sosta sul lungo binario della vita. Innanzitutto, ti devo delle scuse. Sarei ipocrita se affermassi che avrei voluto essere tuo per tutta la vita, sapevi bene che più di qualche anno non sarei rimasto: l’ho confidato ai tuoi figli tante, troppe volte. La premessa, però, era sempre la stessa: “nulla contro di voi, che porterò sempre nel cuore”. Ed era la verità: per due anni sono stato un leale accumolese, la mia giovane famiglia un tassello della comunità. Perché, allora, scusarmi? Perché ci sono sempre stato, o almeno ci ho provato, di giorno e di notte, libero o indaffarato, per reali esigenze o per una semplice parola di conforto, senza mai tirarmi indietro un istante; eppure, nel momento più tragico della tua storia io non c’ero. Quindici giorni, solo quindici, si sono interposti tra il mio saluto e l’inferno che ti ha impunemente stuprata. Sono consapevole che se non fossi andato via, probabilmente non sarei neanche qui a scriverti. Eppure non c’è giorno in cui il mio cuore, stringendosi a sé quasi soffocando, non mi faccia sentire un inconsapevole fuggiasco. Quando, dopo il terremoto del 24 agosto 2016, sono tornato in Piazza San Francesco e non senza difficoltà sono entrato nell’alloggio semidistrutto dove fortunatamente erano presenti solo masserizie ed effetti personali, pronti per un trasloco mai effettuato, a polvere e macerie si sovrapponeva il ricordo dei momenti vissuti. L’arrivo tra mille aspettative e la speranza di una serenità da tanto agognata. Il pancione di mia moglie che, settimana dopo settimana, cresceva coccolato dalla tranquillità del verde panorama. La stima della gente. I primi sorrisi del nostro primogenito, le sue prime sillabe, i primi capricci, i primi passi, le pappine, i giochi. La nuova gravidanza. L’arrivederci. La nascita della secondogenita. Il ritorno. L’addio. Sì, immagini come un treno ad alta velocità, così rapide da sfuggire alla presa della mente ma non del cuore. Vorrei sfogliare il diario dei ricordi, soffermarmi su un singolo momento, accarezzare istante per istante un aneddoto, eppure non ci riesco: è questo l’effetto che fa un’emozione trinciata dal rifiuto della realtà? Eri bella, Accumoli. Le tue frazioni, spopolate eppure pregne di un’identità forte, a tal punto da voler ancora sentirsi chiamare “paesi”. Le passeggiate tra i caratteristici scorci in pietra, con la neve o con un sole primaverile anche in agosto. Il silenzio quotidiano di un borgo abbandonato a se stesso eppure felice. Ecco, questo avrei dovuto capire, quando mi chiedevo come fosse possibile programmare una vita intera in un posto certamente sano e tranquillo, ma logisticamente disagiato: un’esistenza è felice quando ti accontenti di ciò che hai. E tu, Accumoli, nel tuo piccolo donavi a chi ti ha vissuto sin dalla nascita l’orgoglio dell’appartenenza, il forte legame di sangue con la terra natia, ruspante, testarda ma generosa. I tuoi figli avevano “poco”? Ebbene, quel “poco” è la ricchezza più grande che adesso a loro manca. Eravamo una piccola-grande famiglia. Probabilmente anche fin troppo litigiosa per essere così piccola, ma tant’è: ognuno di noi si incontrava anche due o tre volte al giorno, due chiacchiere davanti al gommista sotto gli occhi del pastore tedesco mascotte paesana, un caffè al bar in piazza o un aperitivo al bar accanto alla farmacia, l’ufficio postale aperto tre mattine alla settimana, il pane o lo zucchero al piccolo negozio di alimentari, il sabato sera la pizza di fronte al laghetto di pesca sportiva, un fumante piatto di gricia (pardon, “griscia”) nella frazione Grisciano dove anche la tappa per uno dei tanti caffè giornalieri era d’obbligo. Un salto ad Amatrice, dalla pediatra, dal medico di famiglia, dall’assicuratrice, in farmacia o per la spesa intermedia, due parole con i cari amici del bar sotto la torre, un saluto al sempre cordiale barbiere di fiducia, un sorriso ai familiari di amici e colleghi. Almeno una volta a settimana la mozzafiato Ascoli Piceno, una città bomboniera, per la grande spesa, una passeggiata, una serata romantica o tra amici. Al rientro ad Accumoli, nella quiete di Piazza San Francesco, capitava spesso di incontrare Andrea, Graziella, l’educatissimo piccolo Stefano e, negli ultimi tempi, il cucciolo Riccardo nel passeggino. Una famiglia, insieme a qualcun’altra, con cui avevo particolarmente legato, pur dovendo mantenere un doveroso distacco. Non ci sono più. Se non erro, le ultime persone salutate andando via da Accumoli, con la promessa di rivederci quando sarei tornato per il trasloco, sono state proprio loro. Un destino maledetto ha colpito chi non lo meritava. Mentre scrivo piango e forse perdo lucidità; perdonami, Accumoli, ma fa male. Ho in mente l’eco delle parole dei genitori di Andrea, suoceri di Graziella e nonni di Stefano e Riccardo: “Vi volevano bene, ci dicevano di non volersi legare troppo a voi perché sapevano che prima o poi sareste andati via e ci sarebbero rimasti male”. I loro volti, ora, sono nella foto che i loro cari hanno donato a parenti ed amici, nella mia camera da letto accanto alle foto della mia famiglia. Lì e nel mio cuore, insieme al mio caro barbiere amatriciano con lo stile d’altri tempi ed alla sua signora; alla giovane, timida e sempre sorridente moglie di un grande amico, ai tanti volti incrociati poche volte o scrutati a lungo, inconsapevole che non li avrei più rivisti. Scusami, Accumoli, per aver voluto a tutti i costi andare via. Grazie, Accumoli, perché nonostante tutto i tuoi figli mi vogliono ancora bene e mi definiscono “uno di loro”. Forza, forza Accumoli.
Sono state assegnate alla categoria adulti le seguenti menzioni speciali:
Menzione per la profondità della tematica affrontata e per il lodevole messaggio di grande umanità alla lettera avente prot. n. 54 avente titolo “Nel mare della mia mente” dell’autore Esposito Alfonso di Battipaglia;
NEL MARE DELLA MIA MENTE Battipaglia 25/03/2017
Prologo
Quanto segue è la trascrizione di una lettera, indirizzata agli italiani, che io stesso, una mattina di primavera, ho trovato in una bottiglia di plastica trasparente con il tappo rosso. La bottiglia portata avanti dalle onde e indietro dalla risacca, galleggiava perfettamente, l’ho raccolta con l’intenzione di metterla nei rifiuti ma dentro c’era un foglio a quadretti piuttosto mal concio. Mi trovavo su una spiaggia del mare della mia mente, immerso nei pensieri freddi e umidi di quanto sta accadendo nel Mediterraneo. C’è poca fantasia in quello che leggerete e molti fatti veri. Non ho intento di intristire il viso della vostra anima ma di aprire gli occhi della vostra coscienza.
22 dicembre 2016
Ciao Fratelli Italiani, il mio nome è Sefaf Barole Negash sono eritreo di Asmara. In questo momento mi trovo a largo della costa libica, per la seconda volta provo a raggiungere l’Italia. Siamo accalcati su un peschereccio, scrivo poggiandomi sul bordo della barca, siamo in tanti fa molto freddo, per fortuna io mi trovo all’aperto, meglio il freddo che la stiva. Mio nonno mi ha insegnato la lingua italiana prima di finire tra gli epurati nel 1994, nel mio paese ho provato ad essere un giornalista fino a che ho potuto, poi sono dovuto fuggire. Chi, se mai leggerà questo scritto, insieme all’anima di mio nonno perdoni il mio italiano incerto e la grafia scossa dai colpi del mare. Se Dio ci assiste tra tre giorni saremo a Lampedusa o tra quattro su qualche costa italiana. Ho portato con me carta e penna, finalmente posso scrivere, su questo barcone pullulante di corpi ho più libertà che nel mio paese. Fratelli italiani, fratelli europei lascio a questi pochi fogli ciò che ho visto con i miei occhi e vissuto sulla mia pelle, se non dovessi riuscire a consegnarla con le mie mani la lascio al mare. Il mare è buono oggi, è la seconda volta che tento la traversata la prima fu nel maggio del 2004, ci imbarcarono su un peschereccio vecchio come questo, eravamo 172 quasi tutti eritrei, ora ci sono uomini e bambini provenienti dalla Somalia, dalla Libia, dal Gambia, dal Burundi, dalla Guinea, dalla Costa d’Avorio, dalla Nigeria ci sono anche alcuni marocchini e algerini molto giovani, ognuno con la sua storia, ognuno di loro fugge da qualcosa di spaventoso, pochi vanno alla ricerca di fortuna. La prima volta nel 2004 il barcone finì alla deriva ma poi riuscì ad invertire la rotta, ci arenammo su una spiaggia libica, cercammo una direzione in cui fuggire ma fummo arrestati e portati nel carcere di Misratah poi trasferiti in uno di Tripoli. Un giorno ci vennero a prendere i militari, ci portarono all’aeroporto era il 21 luglio, con quattro voli in due giorni ci riportarono in Eritrea. All’aeroporto di Asmara ci venne a prendere l’esercito, lo stesso esercito da cui eravamo fuggiti, esercito di un regime che ci imponeva un servizio militare a tempo indeterminato, nessuna libertà di opinione e di culto. Ci caricarono su dei camion e ci portarono a Gel’alo sul mar Rosso, ci rendemmo molto presto conto che non si trattava di un carcere ma di un campo di lavori forzati. Una cinta di rovi folti e spinosi rendeva impossibile evadere, eravamo circa 500, ci attendevano giorni di inferno. Al mattino l’appello alle cinque, alle sei al lavoro nel cantiere di un lussuoso albergo, sorvegliati e bastonati dai militari, scalzi e denutriti a 40 gradi di temperatura, l’unico cibo era pane e acqua. Quella tortura durò dieci mesi, poi ci portarono nel campo di addestramento militare di Wi’yan per il servizio di leva a vita, nessun contatto con la famiglia nulla di nulla. Per fortuna il nostro barcone continua a navigare verso l’Italia, stiamo stretti, strettissimi, c’è cattivo odore, la maggior parte di noi non si lava da mesi, su questa nave disperata è difficile anche sporgersi per fare i propri bisogni, molte persone si lamentano altri addirittura litigano, i bambini stanno in silenzio, dalla stiva sale un puzzo acre di gasolio e uomini. Sta facendo notte, il freddo è pungente, ci penetra nelle ossa, il nostro capitano è così drogato che sembra immune al sonno e al freddo.
23 dicembre 2016
Riprendo a scrivere che il sole è già alto, la prima notte è stata dura, per fortuna il tempo è ancora buono e l’Italia è più vicina. Ora sul barcone c’è un grande silenzio, c’è solo il rumore del motore, intorno a noi si materializza il nostro ultimo terrore, decine e decine di corpi senza vita, gonfi come palloni, alcuni laceri e tutti sbiancati dall’acqua del mare. I morti non ci spaventano, la morte, la morte violenta per noi africani sembra essere normalità. Sono fuggito dal campo militare nel 2007, ci ho messo nove anni per riuscire a riprendere il mare, quello che ho visto e quello di cui mi sono reso conto nei miei nove anni di fuga e ben più mostruoso di quello che galleggia in acqua in questo momento. In questa mia missiva mi rivolgo maggiormente ai fratelli italiani perché da eritreo ne conosco il bene e il male, io li perdono per quanto sto per scrivere ma chiedo loro aiuto. Ho scoperto nei miei nove anni di purgatorio che gli aerei libici che ci rimpatriarono erano stati pagati dagli italiani e che l’albergo che noi schiavi esuli abbiamo costruito è nato grazie ai fondi stanziati dall’Italia per lo sviluppo eritreo in cambio di politiche contro l’immigrazione. Fratelli italiani, come potete pensare di fare accordi con un regime che non rispetta i diritti fondamentali dell’uomo? Ho scoperto anche che l’uomo che l’Italia mandò alle conferenze di Khartoum, dove vi erano tutti i rappresentanti dei governi del Corno d’Africa, è ora ai vertici di una grande azienda dei petroli. Fratelli Italiani chi vi amministra da soldi al regime eritreo, li da tramite cooperazione internazionale affidandola ad aziende italiane, questa è solo una diversa forma di colonialismo e noi siamo l’effetto collaterale dell’elisir di eterna giovinezza che l’occidente si procura bevendo il sangue nero. Gli eritrei conosco bene il colonialismo italiano, con il dispiacere nell’anima vi dico che anche il regime eritreo ricorda bene il colonialismo italiano, soprattutto le torture da voi ereditate, che io stesso ho subito e con le quali ho visto soffrire e morire la mia gente, per mano di se stessa. Queste pratiche in Eritrea hanno ancora nomi italiani “Otto, Ferro, Elicottero” la più assurda si chiama “Gesù Cristo”. Ho visto uomini appesi ad alberi legati per le braccia con le punte dei piedi a sfiorare il terreno morire di asfissia come se crocefissi, alcuni di quelli che dopo una settimana non erano morti, li ho visti sostenuti da pochi nervi e pelle, dato che le braccia erano oramai staccate dal corpo. Sul barcone la sofferenza è diventata palpabile, qualcuno è allo stremo, i lamenti si sono moltiplicati, è quasi di nuovo notte, domani potremmo approdare a Lampedusa, potrebbe così finire il nostro olocausto. Penso all’Eritrea che è diventata un arcipelago di Gulag sorti dove prima c’erano i campi di concentramento del colonialismo italiano, ora avanti e dietro di noi c’è solo mare e speranza, sono stanco.
24 dicembre 2016
E’ la vigilia di Natale, ma oggi è un giorno speciale non solo per noi cristiani su questa
barcaccia, dovrebbe essere per tutti il giorno dell’approdo. Siamo stremati, abbiamo sete, fame e freddo la speranza ci fa resistere, quando non scrivo provo a riposare, ascolto le storie dei miei vicini. Io so che voi, cari fratelli europei ci considerate un problema e nel migliore dei casi una emergenza umanitaria ma noi siamo una emergenza politica, aiutateci se potete. La nostra Africa è oggi un mosaico insanguinato e disgregato, la violenza e l’efferatezza che ci ha invaso è tanto più mostruosa di quella che l’Europa ha conosciuto nella prima metà del novecento, solo che di noi il cinema non ne parla, il mondo dell’informazione è per lo più al soldo di chi usa la nostra tragedia per spostare distorti equilibri a favore di pochi. Gli africani sono diventati i peggiori carnefici di loro stessi. Ora sono troppo stanco, affamato, addolorato e infreddolito per scrivervi quello che dovreste già sapere. Voglio pensare che stasera approderò in Italia e se qualcosa dovesse andare storto almeno saprete il mio nome, non finirò come i miei fratelli migranti raccolti in mare e sepolti senza nome. Quel poco della mia storia e del mio messaggio sarà letto da qualcuno e così non sarà stato tutto vano.
25 dicembre 2016
Siamo ancora in mare. Abbiamo urtato qualcosa e la botta mi ha svegliato, non so dove ci troviamo ma non si vede alcuna costa. Al quarto giorno questa non è più una barca ma un cadavere galleggiante brulicante di larve semimorte. Sento delle grida provenienti dalla stiva, la barca sembra sempre più lenta, da una portella di coperta esce la testa di un uomo che grida “ACQUA!!!”, non è sete, stiamo affondando.
Ora metto i miei fogli nella loro scialuppa di plastica, salvo di me quello che posso salvare.
Epilogo
Il barcone di Sefaf non ha mai raggiunto le coste italiane. Stime parlano di 23.000 morti negli ultimi dieci anni nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, il vero numero è sconosciuto, studiosi di statistica dicono che in questi casi il numero probabile è dieci volte superiore a quello delle stime ufficiali, se così fosse i morti in mare potrebbero essere 230.000, non conosceremo mai il numero esatto né i loro nomi, sappiamo però che questo è un numero destinato ad aumentare. Nei giorni di Natale del 2016, complice l’anticiclone africano in molti hanno tentato la traversata, sono stati tratti in salvo in mare 417 esuli, tra cui una donna incinta e un’altra che aveva da pochi giorni partorito su un gommone. I migranti sono solo la punta dell’iceberg di quanto sta accadendo da decenni in Africa, noi Europei che ci facciamo promotori di musei sulla memoria, del giorno della memoria, che ci riempiamo la bocca con propositi di pace, che auto celebriamo la nostra consapevolezza di ciò che non deve più accadere, non possiamo continuare a far finta che al di la del mare la ferocia umana non sia più spietata che mai e che noi non ne abbiamo Responsabilità. Diamo adito a propacanducole perché ci fa comodo, perché siamo così egoisti da avere paura dei nostri fratelli africani, medio orientali o asiatici che siano. A causa di queste correnti di pensiero faziose e populistiche l’Europa, che poteva essere Unita e forte, è sempre più disgregata e debole, da faro dei diritti umani nel mondo sta diventando il continente dei muri. Sefaf ci chiede aiuto, per aiutarlo dobbiamo essere migliori e Fare scelte migliori, riconsiderare il nostro stile di vita, “dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo nel mondo” diceva Gandhi. Sefaf ci perdona traendo ispirazione dal suo idolo africano Madiba (Nelson Mandela), “il perdono e un’arma potente” diceva Mandela e diceva anche “il compito più difficile nella vita è cambiare se stessi”. Si citano nomi importanti per concetti semplici, perché non diventino mai luoghi comuni, tutto ciò che è stato enunciato da grandi uomini è alla nostra portata, ogni concetto più alto che conduca alla pace globale è alla nostra portata, la conoscenza ci può aiutare ma solo la volontà può generare un miglioramento.
Menzione per l’originalità artistica alla lettera avente prot. n. 53avente titolo “Lettera a Firenze “dell’autrice Cristina Giuntini di Prato.
5 Maggio 2016
Mia carissima Firenze,
Perdonami se ti scrivo così, senza preavviso, proprio in questo giorno in cui si celebra l’Ascensione e in cui tu sei intenta a festeggiare, adorna di fiori e splendente come non mai, davanti ai tuoi figli e a coloro che sono venuti a farti visita. Ma vedi, Firenze, ho urgenza di chiederti se per caso, perso tra la confusione e i colori della folla, tu non abbia visto il mio grillo. Non ti parlo, no, di uno di quei bassi e buffi veicoli a molla che amavamo tanto guidare, da bambini, nel giardino della Fortezza Da Basso. Non ho più l’età per questi giochi, e so che anche tu, Firenze, li hai mandati in pensione; per quanto, credimi, mi piacerebbe molto rivederli in giro, in un prossimo futuro.
Quello che ho perso è proprio un grillo, uno di quegli animaletti neri e canterini che, proprio in questo giorno, si acquistano, nelle loro gabbie colorate, alla fiera delle Cascine. Così come lo avevo acquistato io: e credi, Firenze, era un vero grillo, non una piattola spacciata da qualche venditore disonesto. Avevo controllato bene che avesse il suo bel collarino giallo! E pensavo anche di averlo chiuso bene nella gabbietta, ma mi sbagliavo: mi è bastato distrarmi un attimo, per permettergli di aprire la porticina e scappare via. E dire che gli avevo messo nella gabbia anche una foglia d’insalata, affinché non soffrisse la fame: ma quel furbone deve avere preferito andare alla ricerca di un bel pezzo di schiacciata fiorentina, per ubriacarsi di panna e zucchero a velo.
Diglielo tu, Firenze, che ancora non è settembre, e che stasera non saranno le rificolone variopinte a illuminare per lui le acque dell’Arno. Se lo vedi correre, con le antenne diritte, dal Campanile di Giotto a Palazzo Vecchio, guardalo dai mille tacchi dei turisti, che lo minacciano a ogni piccolo passo. Guidalo piuttosto in Oltrarno, fra le botteghe artigiane e le massaie cariche di sporte, ma fai attenzione a che non si perda fra i sampietrini. Io devo ripartire, Firenze, e non posso lasciarlo qui, o non troverò mai più pace.
Non mi credi, Firenze? Ti pare che io stia esagerando, nel dare così tanta importanza a un trascurabile animaletto? Hai ragione, e te lo confesso: non è il grillo che io sto cercando, ma il mio cuore.
Mi è sfuggito di mano più di vent’anni fa, quando ti ho salutata, e da allora vaga per le tue strade e le tue piazze, le tue chiese e i tuoi palazzi, senza che io possa fare niente per riportarlo indietro. E non importa quanto poco io mi sia allontanata da te, e quante volte torni a farti visita, e a cercarlo: lui non si fa trovare. Si nasconde fra le illustri tombe di Santa Croce, o nel ricamo di un tabernacolo che non avevo mai notato prima, corre su verso Piazzale Michelangelo ma, quando credo di averlo in pugno, si ributta giù, verso Ponte Vecchio. E allora, Firenze, sappilo, non puoi più giocare con lui: o me lo rendi, o riprendi con te anche me. Scegli.
Con infinito amore.
Menzione alla migliore lettera internazionale alla lettera con prot. n. 20 dal titolo “ Tierra lejana, una historia, un amor!” dell’autore Horacio Antonio Tedesco di Capilla del Monte, Buenos Aires, Argentina.
Terra lontana, una storia, un amor!
Terra lontana,
dopo tanti anni la Madonna mi ha concesso la grazia di essere in grado di fare un viaggio, un viaggio il cui pensiero mi ha inseguito giorno dopo giorno; era così forte che addirittura, addormentandomi, sognavo della Vergine.
E così nel mese di settembre dello scorso anno sono arrivato a San Sosti avverando il mio sogno. Ho conosciuto parenti, amici e connazionali: è stato emozionante! Il giorno del mio arrivo ho percorso il centro storico con mia cugina Tommasina e con un’emozione rara nell’anima, senza lacrime e senza sorrisi, ad ogni passo mi domandavo incredulo se fossi nella terra dove è nata la mia storia, il mio sangue. Eppure nel respirare quell’aria non sentivo nulla di strano, perché quel profumo era il mio.
A piedi lungo la via Regina Margherita ho immaginato i primi passi di mio padre ripercorrendoli ogni giorno della mia permanenza con il cuore colmo di sentimenti…non scorderò mai la gioia di ballare la tarantella a notte fonda in via Nazionale circondato da amici e parenti e non dimenticherò mai come con grande fede si festeggi la Madonna prostrandosi dinanzi al suo sacro mantello!
Che forte che sei San Sosti, terra lontana, terra di storia e d’amore indimenticabile.
Parlo a voi compaesani, così come a un fratello. Tante cose avrei voluto fare ma il breve tempo ha giocato contro. È molto difficile esprimere la felicità di avervi conosciuto e scrivere facilmente di tali grandi sentimenti poiché si sentono solo con il cuore! Vorrei chiedere scusa, perché le circostanze della vita ci hanno separato; da questo allontanamento a San Isidro, in Argentina, sono nato io ed è lì che ho sentito pronunciare il nome di San Sosti. Ma, nonostante la distanza, cari compaesani, siete e sarete parte della mia vita.
Mi inginocchio a voi, alle vostre strade e montagne, all’alba del giorno e al cielo notturno, mi inginocchio davanti alla vostra fede e alle vostre tradizioni e mi inginocchio davanti all’immagine bella della Madonna del Pettoruto, che mi ha fatto il miracolo di poter essere con voi. Oggi, addirittura, siete stati anche nelle mie orecchie allorquando durante la notte, nei miei sogni, rievocavo il suono delle campane della chiesa di Santa Caterina, con la sua aria di pace.
Tu San Sosti sei una sorella lontana, sei la mia origine e la storia di un amore che custodisco gelosamente nel cuore, nell’anima e nella mente. Grazie per essere parte di me, ci ritroveremo, per riabbracciarci e scrivere così, ancora più forte il nome di San Sosti nel profondo del mio cuore.
Tuo figlio, per sempre.
Tierra lejana, una historia, un amor.
Y así después de tantos años la Madonna me ha concedido la gracia de poder hacer el viaje, viaje que en esto últimos años lo pensaba realizar día a día, fue tan fuerte que hasta dormido he soñado con la virgen, y así fue en septiembre del año pasado 2016, después de un largo viaje llegué a San Sosti, el sueño se me había cumplido, el recibimento de parientes, amigos y paisanos ha sido emocionante, al otro día de mi arrivo debería hacer honor de pisar y caminar el centro histórico, y en compañia de mi prima Tommasina caminaba con una emosión interna que solo envolvía mi alma, sin lágrimas, y sin sonrrisas, solo a cada paso era un pensamiento propio de querer darme cuenta en donde estaba, sí en la tierra que es propio de mi origen de mi sangre, al respirar no sentí nada extraño, porque su aroma era el mio, caminar por la Via Regina Margherita imaginaba los primeros pasos de mi padre y así lo hice yo, vueltas y vueltas cada día me llenaban el corazón de sentimientos…que alegría que tuve al bailar la tarantella una noche rodeado de amigas y de parientes era como dejar marcados esos pasos en la Via Nazionale..y después lleno de Fe llegó el inicio de la Fiesta de la Madonna, donde culmino su fiesta postrado ante su bello manto…que fuerte que sos San Sosti, tierra lejana , tierra con historia y un amor por vos inolvidable, te hablo así como a un hermano, tantas cosas hubiera querido hacer por tú nombre , pero el tiempo tan corto me jugó en contra, es muy difícil expresar con la mente y escribir los sentimentos porque ellos solo se sienten con el corazón! Quisiera pedirte perdón, porque por circunstancias de la vida los mios y otros debieron partir, por esa partida y nacido en San Isidro Argentina rodeado de sansostesi hoy puedo pronunciar tú nombre porque, sos y serás parte de mí vida..me arrodillo ante tú gente, ante tus calles y montañas, ante tú firmamento de día y de noche, me arrodillo ante tú Fe y Tradición me arrodillo ante la hermosa y resplandeciente imagen de tú Madonna del Pettoruto, que me ha hecho el milagro de poder estar con vos. Hoy, aún llevo en mis oídos cuando las noches en mis sueños escuchaba el sonar de las campanas de la iglesia de Santa Caterina, con tú aire de paz. Sos como toda tú gente, un hermana tierra lejana, sos mi origen con una historia y un amor que llevo en mi corazón, alma y mente. Gracias por ser una parte de mi historia viva. Regresaré para volver a abrazarte hermano ó hermana y escribir tú nombre San Sosti en lo mas alto de mis sentimentos, Orazio Antonio Tedesco, tú nieto , tú hijo por siempre!
Menzione per la migliore lettera in lingua locale alla lettera n.31 dal titolo “Littra” dell’autore Mario Signoretti di Spezzano Albanese (CS).
Littra
Car’Amicu
Ca vieni a visità a terra mija – un t’aspittà i ti truvà u mod’ i vita tuva, i regole di tuva, picchì nuv’ avimu u modu nuastu i viva; – un pitrenna ca cangiamu i tradizioni noste ppì i fa guali ari tuva picchì divintamu a brutta copia i chiri ca simi; – un ti lamindà si i cosi un zu perfetti o un zu stati fatt a regola d’arti picchì a storia nosta u nnè fatta i perfezioni, ma i tanti cosi diverse ca mis inziemi anu fatt nu popolo unico e speciali. Pirciò, quannu ni vjien a fa visita, u nnè ca ti truavi frabbiche o negozzj granni, genda fridda e pressarula, ma na natura sirvaggia, cuazzi i tanti culuri, mundagni ca si jettanu nda mare e genda singera pronda a ti da na mana e ti fa passà nu poco i tjiemp ccu loro.
Car’ Emigrande
Ca ti ricuagli aru pajisi tuttu cundient o ca ti cià vo sendi ppù fatt ca ha fatt’ i sordi fora – un rimani scundiend s’un canusci chiù a nuddru, picchì ognun’ i loro ghe figliu du tjiempu suva ca u nne’ u tuva; – un ti scunburtà s’un truavi i cumbagni i na vota picchì ognuno i loro ha pigliat’a vija suva e sa jut’ a truvà u distinu; – un t’addummannà picchì u pajisi u nnè cangiatu, picchì tu si ca si cangiatu; – un ti rattristà picchì ghe muartu nu car’amicu, picchì ghe nda natura da vita nascia, criscia e mora.
Pirciò ricordatillu ccu tanta gioia ppi tutt’ i voti ch’aviti jucatu ndi vineddre, ruttu vitri cu paddrunu, arrubbati cirasi di troppi, liticati picchì na guagliuna v’avija guardati, spartutu nu pjiezz i paninu, scialati e cantati davanti a nu bicchjier’ i dudici a litro e na fisarmonica ca facij’ avand e arrieti.
Caro Pajisanu
Ca si natu e crisciutu nda stu paisjieddru calabbrisu. – un ti dispirà picchì un zi trova lavuru, picchì u nuastu ghe statu sempi nu pajisi adduvi a gendi parta, si ricoglia o un si ricoglia cchiu; – un disprizzà u vicinu ppì nu salutu ch’un t’ha fatt, ppì nu rumuru i tropp o picchì a penza politicamendi diversu picchì tu ti po’ – truvà nda stessa condiziona; – un pigulijà picchì ndu pajisi un c’è cchiu genda ppà via picchì a vita ghe fatta i periodi e a genda va circannu spiranzi.
Anzi, mbegnati ppu pajisi tuva, ppà genda tuva, minda a disposizioni u tjiempu tuva o trovatillu, mindaci a passiona picchì sul’accussi u po’ fa cchiù riccu, un fa cunti supa ogni cosa, porta avandi l’usanzi, accumbagna a San Branciscu puri ca un ci cridi, difenda a linga tuva e un ti fa pari vrigogna, tjieni semp avandi u numi du pajisi tuva e da Calabbria, puri sapjienn ca ci su tanti cosi i cangià, accoglia a genda chi passa, cunda i fattarjieddri nda nu modu bellu, e falli para ncredibili e mai sinduti, fa ripiglià i vicinanzi, i vjareddri, i mod’ i fa o i dì, cunda a storia di nanni e di catananni, picchì sul’accussì u pajis po’ stipà a mimoria e un zi nni và aru scuardu.
Si sti cosi u nni vò fa, allura po divindà na pirsuna senza cori, senza storia, senza numi, scurdatu aru pajisi tuva e strajinu ndu rjiest i l’Italija e du munnu.
Si inbece ci rjiesci allura tu po ghess cundiend i tija e du pajisi tuva, gratificatu da fatiga e i chiri ca si risciutu a fa, po ghess na pirsuna stimata e vuluta beni e sa vita t’avissida purtà ad ancun’ata rasa i munnu allura po ghessi sicuramendi cchiu gutilu aru pajisi adduvi si jutu a stà picchì ti puarti arrjieti l’esperjienza i nu munnu diversu.
Car’Amicu, Emigrande e Pajisanu cu tant’ affettu Maruzzu vuastu.
Lettera (traduzione)
Caro Amico
che vieni a visitare la mia terra, – non aspettarti di trovare il tuo modo di vivere, le tue regole perché noi abbiamo il nostro modo di condurre la vita; – non pretendere che modifichiamo le nostre tradizioni per adeguarle alle tue perché diventeremmo la brutta copia di quello che siamo; – non lamentarti se le cose non sono perfette o non sono state realizzate a regola d’arte perché la nostra storia non è fatta di perfezione ma di tante varietà che messe insieme hanno fatto un popolo unico e speciale. Pertanto, quando verrai a farci visita, non troverai fabbriche e centri commerciali, gente algida e frettolosa ma natura aspra e selvaggia, colline di infinti colorii, monti che si tuffano in mare e gente schietta pronta a tenderti la mano e a condividere il suo tempo col tuo.
Caro Emigrante
che torni al paese con entusiasmo o con la boria di chi si è realizzato altrove – non rimanere deluso se non riconosci più i volti perché ognuno di loro è figlio del suo tempo che non è il tuo; – non abbatterti se non trovi gli amici di allora perché ognuno di loro ha preso la sua strada ed è andato incontro al suo destino; – non chiederti perché il paese non è cambiato perché sei tu che sei cambiato; – non rattristarti per la perdita di un caro amico perché è nella natura degli esseri viventi nascere, crescere e perire.
Piuttosto ricordalo con infinita dolcezza per tutte le volte che avete giocato nei vicoli, rotto vetri col pallone, rubato ciliegie dagli alberi, litigato per lo sguardo di una fanciulla, diviso un tozzo di panino, gioito e urlato a squarciagola davanti ad un bicchiere di 12 al litro e l’andirivieni di una fisarmonica.
Caro Paesano
che sei nato e vivi nel tuo paesello calabro
-non disperarti perché non c‘è lavoro perché il nostro è sempre stato un paese di partenze, di addii e arrivederci; – non denigrare il tuo vicino per un saluto mancato, un rumore di troppo, o solo perché è di un’altra opinione politica perché pure tu puoi trovarti nella stessa condizione; – non lagnarti perché il paese si spopola e non c’ è gente per le strade perché la vita è fatta di cicli e la gente va in cerca di speranze.
Piuttosto impegnati per il tuo paese, per la tua gente, metti a disposizione il tuo tempo libero o prenditelo all’occorrenza, mettici passione perché solo così puoi arricchirlo, non fare calcoli su ogni cosa, alimenta le tradizioni, accompagna San Francesco anche se non sei credente, difendi il tuo idioma e non vergognartene, tieni sempre alto il nome del tuo paese e della Calabria pur sapendo che ci sono tante cose da migliorare, accogli viandanti e curiosi, racconta le piccole storie in maniera sognante e falle sembrare uniche e incredibili, fai rivivere i borghi, le viuzze, i modi di fare e di dire, racconta la storia dei tuoi nonni e dei nonni dei tuoi nonni perché solo così il paese avrà memoria e non cadrà nell’oblio e nell’indifferenza del mondo.
Se rifiuterai tutto ciò rischierai di diventare un uomo arido, senza storia, senza identità, dimenticato in casa e straniero nel resto d’Italia e del mondo. Se invece riuscirai allora sarai fiero del tuo paese e della tua appartenenza, gratificato dal tuo impegno e dai risultati, conserverai integra la tua identità e se le circostanze ti porteranno a vivere altrove sarai ancora più utile alla tua nuova comunità perché ti porterai l’esperienza e la ricchezza delle diversità.
Caro Amico, Emigrante, Paesano con affetto il vostro Mario.
Menzione per la migliore scrittura alla lettera avente prot. n. 41 dal titolo “Mio paese” dell’autore Mazziotti Salvatore di Castrovillari (CS).
Per la Categoria ragazzi 6-12 anni.
Con 59 voti totali su 60, al primo posto si classifica la Lettera con prot.n. 41/R , avente titolo “ In ogni battito…San Sosti”, dell’autore Alessandro Dito di Nardò, in provincia di Lecce.
In ogni battito…San Sosti.
Ciao San Sosti,
mi riconosci? Sono tuo figlio.
Vivo in Puglia, ma spesso nella mia mente affiorano i momenti vissuti con il mio papà tra le tue antiche stradine.
Prima che questi si conservino nella memoria voglio condividere con te i ricordi che hanno avuto per me un fascino particolare e che mi hanno suscitato forti emozioni.
Ricordo il giorno in cui papà mi portò in Calabria a trovare il nonno.
Mi condusse al santuario del Pettoruto, luogo di pellegrinaggio e di grande bellezza e preghiera.
Quel giorno era la festa della Madonna e fui avvolto da migliaia di persone fortemente devote che recitavano preghiere e cantavano canzoni popolari.
Attratto da questo folklore mi sono unito a loro cantando e ballando con gioia.
Le emozioni più forti e più intense che mi accompagneranno per sempre nella mia vita, sono strettamente legate alla bellezza della cascata di Frà Giovanni luogo affascinante quasi irreale.
Qui Madre natura è esplosa in tutta la sua magnificenza.
Ripenso allo scroscio prepotente dell’enorme massa d’acqua, al suo cristallino colore e alla sua trasparenza, che con grande eleganza si lascia cadere nel fiume rendendo più suggestivo il paesaggio circondato da una vegetazione ricca di mille colori e sfumature di verde, accompagnato dal forte profumo di erbe aromatiche.
Ero circondato da orchidee selvatiche, ciclamini e camomille che inondavano l’aria con il loro profumo unito a quello della menta, dell’origano e dei pini.
Tra i rami degli alberi gli scoiattoli, saltellanti da un ramo all’altro, erano bravissimi a colpire me e gli altri visitatori con lanci di noci e castagne.
Troppo divertente!
Io sfregavo gli occhi per accertarmi che tutto ciò non fosse un sogno e con incontenibile meraviglia fissavo intensamente la cascata tanto che la mente mi portò a fantasticare…
Immaginavo una meravigliosa sirena dai biondi riccioli che portandosi una mano sul viso intonava un canto melodioso incantando i presenti.
Il mio papà, che mi teneva per mano, mi guardò, capì il mio stato d’animo e rise fragorosamente riportandomi alla realtà.
Ancora oggi quella risata risuona forte nella mia mente e, anche se il mio papà non c’è più, io lo ringrazio sempre per l’amore che mi ha trasmesso per la Natura e per il suo Paese.
Ora ti saluto San Sosti mio, verrò presto a trovarti per perdermi nella tua bellezza e per ritrovare mio Padre, perché come diceva lui: “Ccà ci tiagnu u cori mia” (Qua ci sta il mio cuore).
Un forte abbraccio, tuo figlio.
Con voti 58 su 60, al secondo posto si classifica la lettera con prot. n. 35/R avente titolo “Lettera al mio paese”, della classe IV sez. A dell’Istituto comprensivo di Melicucco, plesso Don Milani, prov. di Reggio Calabria.
Lettera al mio paese.
Caro paese mio,
ti scrivo questa lettera per dirti quanto di te sono innamorata.
Tu sorgi ai piedi di montagne e di colline a te vicine, nella Piana di Gioia Tauro, attraversata dal fiume Metramo, ricco di trote.
Già dall’origine del tuo nome greco “Melikokkos” (Melicucco), risuona la dolcezza del tuo clima e le tue terre fertili, ricchi di alberi da frutto, di agrumi, di viti, di grani, di ulivi che copiosi compaiono sulle nostre tavole!
Oh che gioia essere nata a Melicucco!
Tu, Paese mio, ogni anno mi fai rivivere l’emozione del Natale che arriva, quando, per le tue vie sento i profumi di “li zippuli” (le zeppole), ciambelle o bocconcini ripieni di baccalà, di sardine con la “nduja” fritte nel tuo saporito olio d’oliva, e l’aroma, che si spande nelle nostre case, di “li nacatuli” (le nacatole), dolci che preparano le nostre mamme e le nostre nonne per festeggiare la nascita di Gesù Bambino, insieme alle vicine che intonano nenie religiose.
E che dire poi del magico suono delle zampogne, che durante la novena accompagnano all’alba i fedeli per la messa.
Anche le piogge copiose che caratterizzano l’inverno, rendono le tue vie allegre e movimentate, in attesa della Primavera, esplosione di colori e di profumi che ci accompagnano fino alla Pasqua e riempiono i nostri cuori di una gioia nuova: la resurrezione di Cristo, la vita che rinasce. Nella Domenica di Pasqua, dopo l’”Affruntata” (Affrontata: incontro di Maria e San Giovanni con Cristo Risorto) aria di festa in tutte le nostre case, dove appaiono sulle nostre tavole “i maccarruni” (i maccheroni) fatti a mano e conditi con il sugo di capra. Fremiamo tutti, in attesa della Pasquetta, che trascorriamo con amici e parenti nelle nostre ricche e verdeggianti campagne mangiando “a suprezzata” (salame soppressato) e la “sguta” ciambella di pane con le uova.
Nelle tue tradizioni, nella tua semplicità delle cose io mi rifugio, ed è in te che voglio costruire il mio futuro, e voglio dare il mio contributo per migliorare la società, che spero diventi più umana e che rispetti sempre la famiglia e valorizzi gli insegnamenti che essa ci dà, per farci diventare costruttori di pace per un mondo migliore.
Ti lascio, Paese mio, chiudo gli occhi per addormentarmi nel dolce pensiero che domani, risvegliandomi, ti ritroverò vicino, a guidarmi e sostenermi nel cammino della vita.
Con voti 53 su 60, al terzo posto si classifica la lettera avente prot. n.40/R, Il mio paese (com’era), di Aurora Gordano di Mottafollone (CS).
IL MIO PAESE
Caro paesino mio, ti scrivo questa lettera perché voglio raccontarti un sogno.
Mi trovavo su un paesino costruito su una bellissima collina e bagnato da due incantevoli
fiumi. Era un paesino bellissimo e colorato dove non esisteva l’inverno perché gli
abitanti si riscaldavano con un grande abbraccio.
In questo paese era tutti i giorni primavera e gli alberi erano sempre fioriti come se
fossero vestiti per la festa, gli uccellini cinguettavano tra i rami sempre verdi. Anche
le farfalle erano numerose e spesso le vedevo colorare il cielo come se fosse un grande
arcobaleno. Sembrava un regno delle favole, nei fiumi i pesci nuotavano su e giù ed ogni tanto
si affacciavano dall’ acqua per sentire il profumo della lunga primavera. In questo paese ogni bambino era felice e viveva come in un sogno. Pensa paesino mio!
Che tra i boschi che circondavano le case tutti pensavano che ci vivessero le fate;
i fiori dei prati erano bellissimi e di tanti bei colori. Anche gli animali erano felici e
vivevano indisturbati perché non esistevano cacciatori e macellai e nessuno poteva fare del
loro del male. Gli anziani del paese erano sempre circondati da tanti bambini in attesa di sentire
le loro storie anche se la sera si faceva tardi la mattina andavano felici a scuola sapendo
che la maestra li aspettava davanti al portone con il viso sempre sorridente e felice.
Caro paesino mio volevo dirti che mentre sognavo ho sperato che quel paesino fossi tu
ed ora che sono sveglia sono convinta che quel paese bellissimo costruito su quella bellissima
collina tra quei fiumi sei proprio “Tu”. E allora ho scritto questa lettera per
dirti grazie di esistere perché nessuno mai può sostituirti.
Menzione speciale per la migliore lettera in lingua locale alla lettera con prot. n. 99/R dal titolo “A Cerisano, u paesiddru miu” dell’autore Ivan Greco dell’istituto Comprensivo di Cerisano (CS).
A Cerisanu, u paesiddru miu!
Caru Cerisanu, paise miu tantu amatu.
Ti scrivu ppe ti dire quantu bene du core miu mi tene ligatu a tie.
Io signu ancora picciriddru ma già siantu dintra de mia ca tu m’appartiani. T’aiu vulutu
bene de quannu ere criaturu, quannu aiu ‘ngignatu a caminare supra e strade
tue. Ud aiu vistu tanti posti ma secondo me tu si u chiù bellu du munnu.
Cum’è bellu a ti rispigliare a matina, rape e finestre e ti guardare. Quannu u
sule vatte supra l’alberi, quannu è primavera e fioriscianu i cerasi, quannu
chiove e si ‘mbunnanu e case tue e ri lampi ajjornanu e muntagne ca stannu
supra e tia, quannu iazze e ra nive ti cuvere tuttu e c’è cumu na magia.
Cumu mi piace quannu a sira mi viagnu fazzu na caminata intra e ghiazze tue cussì
belle e accoglienti. E pue cumu su belle e ghìese tue! Quannu camini intra
chiri vicoli stritti e pue a nna vota te truavi davanti e riasti mutu, e re campane
sonanu! E funtane deddre scurre l’acqua da fonte nostra ca ni dannu nu pocu
de acqua frisca quannu ni ricoglimu dopo na partita ccu l’amici aru campettu
da scola. Ma a cosa cchiù bella de tia, Cerisano mia, è ra gente tua, cussì
accogliente e cussì generusa. PPe mia sa gente è cumu na ranne famiglia. Ti
vuagliu bene, paesiddru miu, e un ti vuagliu lassà mai! Un mi puazzu vide
luntanu de tia, pecchì signu figliu tuu!
“A CERISANO, IL MIO PAESINO” (traduzione)
Caro Cerisano, paese mio tanto amato.
Ti scrivo per esprimerti tutta l’affetto del mio cuore che mi lega a te. Io sono ancora piccolo ma già sento dentro di me che tu mi appartieni. Ti ho voluto bene sin da quando ero bambino, quando ho iniziato a muovere i primi passi per le tue strade.
Non ho visitato molti paesi ma penso che tu sia il più bello del mondo. È bello svegliarsi al mattino, aprire le finestre e guardarti; quando il sole illumina i tuoi alberi, la primavera fa sbocciare i tuoi ciliegi, o quando la pioggia bagne le tue case e i lampi illuminano le vette dei monti che ti sovrastano, o quando la neve ti copre col suo manto e rende tutto magico. Mi piace quando il pomeriggio vengo a fare un giro nelle tue piazze così belle e accoglienti. E poi quanto sono belle le tue chiese! Quando si cammina per i tuoi stretti vicoli d’un tratto te le trovi innanzi che si innalzano maestose e resti senza parole e il suono delle campane risuona nell’aria. Le fontane da dove scorre l’acqua della nostra fonte ci danno ristoro quando stanchi rientriamo da una partita a calcio con gli amici nel campetto del villaggio scolastico. Ma la cosa più bella di te, o mia Cerisano, è la tua gente, così accogliente e così solidale. Per me questa tua comunità è come una grande famiglia. Ti voglio bene, paesino mio. E non voglio lasciarti mai. Non posso immaginare la mia vita lontano da te, perché io sono tuo figlio.